Dead Cat In A Bag - We’ve Been Through

Postato in Yasta la Vista

Scritto da: Vanoli

Questo utente ha pubblicato 541 articoli.

Dead Cat In A Bag We ve Been ThroughGusstaff Records, 2022

 

 

 

Non deve trarre assolutamente in inganno quel #9 prima del nome del gruppo in questione: non c’entrano infatti classifiche o meriti, ma si tratta soltanto di una motivazione prettamente numerica avendo voluto dare caratteristiche di serialità alla rubrica.

Preciso questo perché oltretutto il disco di cui andrò a parlarvi finirà invero molto in alto nei miei resoconti sui migliori titoli dell’anno, essendone stato letteralmente conquistato.

I Dead Cat In A Bag (questo il curioso moniker scelto dalla band) sono attivi già da oltre un decennio e ogni loro uscita discografica è stata accompagnata da un plauso sempre crescente della critica specializzata.

Il perché è presto detto: il loro sound è qualcosa di sospeso, indefinibile, eppure sa essere al contempo terreno, viscerale, con un linguaggio (narrativo, estetico, compositivo) tremendamente affascinante e soprattutto ricchissimo di sfumature e soluzioni poco convenzionali.

“We’ve Been Through” conferma la bontà della loro opera, e ne amplifica anzi gli orizzonti, mescolando al suo interno una molteplicità di umori e rimandi, atti a formare un caleidoscopio agrodolce dove per una volta l’ombrosità non prevale sul resto, lasciando liberi degli spazi ove far entrare dei suggestivi bagliori.

Il sound riflette ovviamente questa velata dichiarazione d’intenti, mostrandosi quindi mutevole e pronto a tradurre le idee dei Nostri, assecondandone istinti e inclinazioni.

Di talento i ragazzi ne sono provvisti a grandi dose, e ce lo hanno dimostrato anche nei progetti collaterali, a partire dalle esperienze soliste del leader Luca Swanz Andriolo (a nome Swanz The Lonely Cat, giusto per non tradire le affinità col gruppo madre), senza scordare l’impegno di Scardanelli nel proporre musica più sperimentale, fluida ed eterogenea, e l’attività di videomaker e regista di Andrè (all’anagrafe Andrea Bertola).

E’ insieme però che riescono ad esprimere appieno il loro debordante potenziale, amalgamando intuizioni e vissuti, strumenti e sensazioni, ottenendo anche questa volta un risultato straordinario, che va oltre le righe di un “classico” album, rock, pop o folk che sia.

Nei Dead Cat In A Bag sembra che a vigere sia una grande libertà creativa che viene splendidamente incanalata al servizio di brani solidi, profondi e ispirati, senza sfociare mai nell’anarchia disordinata.

Riescono a creare un immaginario, ciò di cui parlano lo puoi “vedere”, o anche solo immaginare cercando tu stesso di cogliere il lato che scorgi meglio dalla tua angolatura.

Facilmente ascrivibili sin dai loro esordi (culminati nel debut-album “Lost Bags” del 2011) al filone dell’alternative folk, in realtà ben presto hanno saputo affinare uno stile personale, che ha caratterizzato egregiamente il successivo “Late for a Song”, pubblicato tre anni dopo, ancora con la indie label “Viceversa Records”, mentre il lavoro più recente (“Sad Dolls and Furious Flowers”) è uscito nel 2018 con “Gusstaff Records”, etichetta polacca dal respiro internazionale.

E in effetti pare naturale, se non scontato, per i Dead Cat In A Bag puntare (anche) su un mercato estero, vista la trasversalità della loro proposta, che sin dai più o meno palesi modelli, trae la sua ispirazione altrove più che a guardare in casa nostra.

Eppure, nonostante siano debitori della magistrale lezione di artisti come Tom Waits, Nick Cave, Mark Lanegan, i Tindersticks o Johnny Cash con questo nuovo album hanno deciso di non replicare se stessi, cercando soluzioni nuove che si intrecciassero nel loro robusto background.

Ecco quindi che, per loro stessa ammissione, ciò che emerge da queste nuove dieci canzoni (di cui otto inedite, più una rivisitazione di un brano tradizionale e una cover assai personale di un brano di Leonard Cohen) assume sembianze differenti, con gli spiriti guida che sembrano somigliare più a grandi compositori come i maestri Ennio Morricone e Angelo Badalamenti.

Le tracce infatti mostrano un piglio diverso e, messe insieme nella scaletta, vanno a definire un affresco cinematografico, accompagnando, come fossero tutte inserite in un’ipotetica colonna sonora di un film western di inizio secolo, l’ascoltatore, il quale viene assorbito in un viaggio onirico, a spasso nel tempo.

Per fare ciò, i Dead Cat In A Bag non hanno lesinato in arrangiamenti inusuali in grado di valorizzare al massimo il lavoro d’insieme, inserendo strumenti dei più svariati e accogliendo nella nave fior di ospiti, tutti con un’affinità d’animo manifesta e decisiva ai fini del prodotto finale.

Nota di merito anche per una produzione – curata dal gruppo assieme al fidato Carlo Barbagallo – che conferisce ulteriore spessore e fa emergere chiaramente ogni dettaglio sonoro.

L’inizio è dei più scoppiettanti, con il singolo “The Cat Is Dead” a fare da vigoroso e sferzante apripista: è un brano liberatorio, che sprizza energia e passione, musicalmente una sorta di blues spaziale e a tratti sbilenco dove un certo groove è corroborato dalla presenza al basso del grande Gianni Maroccolo, professore dello strumento.

 

 

Non sarà l’unico brano movimentato e incalzante della raccolta ma è già questo primo episodio (pubblicato anche come singolo) a fungere da credibile manifesto del mood dell’intero album.

Con i successivi due brani vengono toccate le nostre corde più sensibili, e si rimane estasiati dalla bellezza intrinseca di “From Here” (in cui viene musicata una poesia di Garcia Lorca), tra rintocchi di violino e fumi avvolgenti, e dalle divagazioni solenni di “Between Day And Night”, impreziosita dalla presenza di un quartetto d’archi.

Più ondivaga ma altrettanto affascinante è “Evil Plans” (scritta da Andriolo e Bertola) che ci trapassa nervosa e disperata, e mette in luce il canto appassionato di Swanz che sale di intensità sempre più fino al trionfale ingresso dello shawm. E’ una canzone arrangiata in modo sublime, in cui si mescolano strumenti di natura diversa a completare un mosaico di vivide emozioni.

L’amato banjo, strumento che ha sempre ben caratterizzato il sound della band, introduce uno dei pezzi più toccanti del lotto, vale a dire “Lost Friends”, la cui voce principale è di Liam McKahey (leader degli scozzesi Cousteau), co-autore del brano assieme ad Andriolo: è una ballata notturna e dolente, a tratti funerea, eppure in possesso di una potenza evocativa che non può lasciare indifferenti.

Si arriva così a “Wayfaring Stranger”, traditional rimasticato in versione elettro-country, briosa e decadente insieme, e a una rispettosa “Hunter’s Lullaby” che non tradisce lo spirito originario di Cohen, poggiandosi su un ritmo minimale assai raffinato, tra organo, calde tastiere e un commovente violino.

Proseguendo nel cammino ci si imbatte in un altro pezzo indubbiamente forte: “Duet for Nothing”, scritta da Scardanelli, Barbagallo e Swanz, e da quest’ultimo interpretato in duetto con Alessandra K. Soro. Un dialogo intenso e suadente contornato da una batteria dal passo marziale e mitigata dalle sensuali note del sax baritono.

C’è ancora in tempo, quasi in dirittura d’arrivo, per un ennesimo cambio di scenario, quando a fungere da protagonisti sono i ritmi incalzanti e indiavolati dal sapor gitano di “Fiddler, The Ship Is Sinking”, simile a un assalto di una nave da pirati tra le onde notturne. Visto che si è accennato ai tratti cinematografici di questo disco, beh, allora non possiamo che immaginare questo brano in un film di Emir Kusturica.

A salvarci da una seconda scorribanda giunge la delicata e soffusa title track, con la voce di Swanz (sofferta, rassicurante, dilaniata, profonda) più espressiva che mai e un apparato musicale in apparenza scarno, adagiato com’è sulla chitarra acustica dell’ospite Andrea Tarquini ma che poi riesce a planare limpida e leggera sorretta da magnifici fiati.

Cala così il sipario su un disco che ha saputo scuoterci dentro, muovendo qualcosa nel profondo; ciò che ci viene lasciato in dote è un dono prezioso, la speranza mai come in questo caso ben riposta, che la musica, quella buona, possa ancora fungere da ancora di salvezza nei momenti bui, così come connotare di poesia quelli felici.

Possiamo a cuore aperto dire “grazie” ai Dead Cat In A Bag, decisamente una delle migliori realtà del panorama nostrano, per tutta la gamma di sensazioni provate al loro passaggio.

 

 

(La copertina di “We’ve Been Through”, nuovo album dei torinesi A Dead Cat In A Bag, è al solito ricca di fascino inquieto: la splendida opera è dell’artista visiva Cirkus Vogler, alias Romina Bracchi)