Pearl Jam - No code
CD Remember part 2: Pearl Jam "No Code"
Quando uscì "No Code" in molti attendevano al varco i Pearl Jam, dopo il successo planetario di Vitalogy. C’era nell’aria la sensazione che l’ondata giunge, a ormai due anni dal suicidio di Kurt Cobain, fosse definitivamente tramontata.
Questo contesto storico fece subire a diversi gruppi, paladini di quel genere, una severa battuta d’arresto (pensiamo a Soundgarden o a Stone Temple Pilots e al ridimensionamento di band dure e pure come Mudhoney e Alice in Chains), ma non andò ad intaccare minimamente la popolarità e la crescita del gruppo capitanato da Eddie Vedder.
Le ragioni di questo fatto trovano riscontro soprattutto se, andando a ritroso (all’uscita di Ten, ad esempio), analizziamo il sound della band, che è sempre stato “classico”, se vogliamo, anche se poi l’appartenenza geografica (Seattle, a parte lo stesso Vedder, originario di San Diego), la congiuntura storica, le tematiche trattate e, perché no?, l’abbigliamento canonico, hanno inserito i Pearl Jam nell’immenso calderone.
Ricordo che molta stampa accusò il gruppo di essere salito sul carro dei vincitori ma basterebbe avere una minima cura di leggersi alcune biografie per notare come molti gruppi primigeni (Green River, Mother Love Bone, Temple of the Dog) presentassero tra le loro file già alcuni elementi peculiari dei Pearl Jam (su tutti gli “stakanovisti” Stone Gossard e Jeff Ament).
Quindi, quando (come leggenda vuole!) il benzinaio Vedder, di ritorno da una giornata all’insegna del surf, buttò giù i primi pensieri che poi sarebbero confluiti in “Ten”, le ceneri erano già state buttate da un pezzo a Seattle.
Torno al disco, che già dalla caleidoscopica copertina, fu deciso a spiazzare molti fans ma non il sottoscritto.
Se “Hail hail” come anticipo non mi aveva entusiasmato più di tanto, scorrendo le tracce, notai subito che il suono, pur mantenendo quella classicità insita (e quell’epicità che fece spendere a più d’uno l’appellativo di “U2 del grunge”), aveva acquisito delle sfumature particolari.
A partire dall’accogliente e rilassante “Sometimes”, piuttosto insolita con le sue tonalità basse (anche se poi nel prosieguo della carriera, specie nel suo album “Into the Wild”, Vedder dimostrerà come questo registro sia forse il suo più congeniale), fino all’arriangiamento bizzarro di “Who you are”, con tanto di sitar, per passare poi alla profondità e solennità di “Red Mosquito”, stupenda soprattutto eseguita dal vivo e alla ferocia inaudita di “Lukin”.
Anche le ballate, già presenti in chiave rock nei precedenti lavori, si trasformano in questo disco, divenendo più intimiste (penso alle soffici “Off he goes”e “Around the band”, che sembrano scritte sulla spiaggia californiana attorno ad un falò) e più struggenti, come nella magnifica “Present Tense”, coscritta dal leader insieme al chitarrista Mike Mc Cready.
Il disco comincerà a mietere i giusti riconoscimenti nel corso degli anni, visto che dopo l’inevitabile primo posto iniziale nelle classifiche di mezzo mondo, subirà un brusco stop a causa credo di alcuni cambiamenti in seno al gruppo stesso (ricordo che ad esempio non fu girato nessun video promozionale, quando invece in passato, mi riferisco soprattutto alla drammatica “Jeremy”, fu uno dei mezzi con cui maggiormente colpirono l’immaginario di molti ascoltatori).
Passando al momento “amarcord” personale, anche in questo caso il disco assume connotati a me cari, perché uscì nell’estate in cui io stavo dando la maturità classica e mi apprestavo poi ad iniziare una fase decisiva della mia vita e quindi sappiamo come i dischi abbiano la magia di trasfigurare certi periodi e fissarli per sempre nel tempo.
Quindi, oltre che in molte enciclopedie specializzate in rock, un album come “No code” trova uno spazio importante anche nella colonna sonora ideale di quel mio passaggio esistenziale!