Intervista a Eleonora Bordonaro,tra le cantautrici più interessanti emerse nel 2020 con il suo album “Moviti ferma”

Scritto da: Vanoli

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L’artista siciliana Eleonora Bordonaro si sta imponendo come una delle più talentuose e versatili cantautrici impegnate in una proposta che, partendo da un apparato folk si sta via via contaminando brillantemente lungo il percorso.

La sua ultima prova discografica “Moviti ferma” le è valsa quest’anno l’entrata tra i cinque finalisti in lizza per le prestigiose Targhe Tenco nella categoria “Miglior album in dialetto”.

Un riconoscimento certamente importante a coronamento di una carriera che, muovendosi su più fronti, ne sta mettendo in luce l’indubbio valore.

 

La cantautrice siciliana Eleonora Bordonaro in un intenso primo piano – credit foto: Julia Martins Miranda

Da tempo avevo intenzione di dedicarle il giusto spazio nel mio blog e finalmente l’occasione è arrivata. Durante la nostra telefonata, Eleonora ha tratteggiato al meglio la sua vicenda umana e artistica, aprendosi su tante tematiche al di là di un discorso prettamente musicale.

“Ciao Eleonora, scusa se ti ho fatto attendere, come stai?”

“Ciao Gianni, bene grazie. Figurati, ero qui con degli amici percussionisti di “Sambazita”, una scuola di percussioni brasiliane, potrei mandarti una foto di loro che provano, per ricrearti l’atmosfera in cui mi trovo!”

“Ottimo, ancora meglio, è una bella colonna sonora per la nostra chiacchierata…”

“Non hanno ancora cominciato, quando lo faranno, succederà l’inferno!”.

“Inizio io allora parlandoti di questo tuo disco, Moviti ferma”, uscito ormai diversi mesi fa e che ad ogni ascolto è in grado di regalare sorprese ed emozioni. Volevo chiederti da dove è partita la scintilla che ti ha fatto approdare a questo lavoro, che è ricchissimo di suggestioni, di immagini, oltre che di significative collaborazioni… Quando hai capito che volevi realizzare un album “proprio così”?”

“La scintilla è partita dalla ricerca di quella sensazione di disperata necessità di creare arte, di vivere con fantasia l’arte. Nel senso che lavoro da anni nel mondo dello spettacolo, sotto tanti punti di vista, e mi è capitato di vedere che in situazioni istituzionali o relativamente comode, la spinta alla necessità artistica in qualche modo si perde, diventa un’altra cosa, un po’ si annacqua. Quindi dentro di me sentivo montare questa specie di disagio e cercavo di capire perché, finchè mi è stato più chiaro capire cos’era che mi ha fatto venire questa spinta e in pratica lo riconducevo all’ambiente che frequentavo, l’aria che c’era a Catania in quel periodo”.

“Nonostante la Sicilia e proprio Catania da dove vieni sia un ambiente molto ricettivo per l’arte rispetto ad altre zone d’Italia…”

“Molto ricettivo, sicuramente, ma io poi sentii l’esigenza di fare altre esperienze. Me ne sono andata quindi vent’anni fa e ho girato varie città in Italia, finché mi è venuta una sorta di nostalgia per la leggerezza con cui nella mia città creavamo vicende artistiche senza accorgersi neanche fino in fondo forse di quello che stavamo facendo… eppure stava accadendo!

Dunque quello che mi mancava in principio e che mi aveva messo in crisi era proprio quella forza istintiva, selvaggia, senza aver bisogno necessariamente di condizioni migliori per creare. Facevamo uno spettacolo senza pressioni ma solo perché “si deve fare” e se non ci saranno i soldi per i costumi li faremo lo stesso, e se non ci sono le luci, troveremo le soluzioni migliori alla bisogna, capisci che intendo? Cercavo quella cosa là, così immediata e così “violenta” che sicuramente colpisce il pubblico, che altrimenti è “addormentato” perché non vede una vera necessità nell’artista: questa cosa non lo potevo sopportare più, per come sono fatta io, preferisco di gran lunga, anzi, lo ritengo vitale, mantenere quell’approccio, quel modo magari scombinato, fantasioso, quelle esibizioni in situazioni particolari, ad esempio il cantare dal balcone della pescheria (questo da molto prima del covid, che per fortuna nemmeno sapevamo cosa fosse…).

L’idea era del tipo: “vediamo cosa succede, facciamolo e assistiamo alle reazioni”, quelle cose insomma istintive che vanno oltre la zona di conforto dove ci si sente protetti… E’ qui che io mi ci trovo, sembra un paradosso ma mi sento molto più comoda ad affrontare una cosa che mi mette a rischio, anziché trovarmi in un posto in cui la gente si aspetta delle cose e io gliele do’ in cambio in modo preciso; se devo affrontare un momento di emergenza in cui mi ritrovo sul palco da sola con la mia voce, per me va benissimo, perché quella cosa è nel mio “campo di battaglia” in cui io posso giocare e mi trovo strutturata in tal senso, più che in una situazione patinata, istituzionale”.

“Questa presumo sia prima di tutto una tua componente caratteriale, al di là dell’aspetto musicale: il saper gestire le situazioni meno previste…”

“Sì, mi ci trovo a meraviglia in simili contesti, poi ovviamente anche a me viene l’ansia, sono una perfezionista maniacale in altri aspetti del lavoro, stresso i musicisti, il booklet deve essere impeccabile, le foto pure: come a dire, c’è anche tutto l’altro versante da considerare e capisco che l’arte tenga conto di altro ma non deve mancare la parte istintiva, la “scintilla” appunto da cui far partire le cose”.

 

Il suggestivo video di “Moviti ferma”, diretto da Giovanni Tomaselli
 

“Ecco, Eleonora, una cosa che mi ha colpito leggendo il libretto (che in effetti è molto curato, con tutte le note, le traduzioni dei testi per chi come il sottoscritto non è siciliano) è che tu parli di collettività, un concetto che ho riscontrato anche in altri artisti di recente, quel bisogno di ricreare una comunità dove l’individuo possa esprimersi al meglio e che ci sia come una sorta di “mutuo aiuto”.

Anche tu fai riferimento a questo e la cosa si riflette nel tuo disco dove hai raccolto tanti elementi di spicco della musica siciliana ma non solo. E’ un bisogno che sentivi tu, ti è venuto naturale un approccio al disco di tipo “comunitario”, di gruppo, è un modo con cui tu concepisci la tua arte?”

“Dunque la mia arte io la concepisco come “collettiva” perché è stata coltivata nella collettività. Vengo da un’esperienza di teatro di strada che per me è stata importante, con un gruppo che si chiama Batarnù: ognuno con delle proprie peculiarità ma eravamo un gruppo ed eravamo “potenti”, scapestrati, fantasiosi, uniti e soprattutto istintivi, e quello è la culla della creatività, senza unione e scambio continuo la creatività non cresce.

E’ vero che il disco racconta storie individuabili e classificabili all’interno di un racconto che parla di una donna della mia età del Sud Italia, lo puoi facilmente ricondurre a una persona fisica, capisci che ci sono idee femminili e temi come la maternità, la sostenibilità, l’ecologia; ci sono una serie di argomenti che arrivano cioè da una persona singola, specifica, ma se tutti questi non sono sostenuti da una collettività non hanno nessun senso. E succede a maggiore ragione quando il tema è particolarmente delicato, quando ad esempio racconto della maternità, o della mancata maternità o del mancato desiderio di maternità e di che cosa vuol dire tutto questo, perché attorno a me ci sono tante persone che provano gli stessi sentimenti ma magari non hanno il coraggio di raccontarlo. Per quanto capisca che non sia facile parlare in una canzone di questo, ho voluto farlo, perché il tema sarà sì controverso da affrontare nella vita di tutti i giorni ma in fondo la creazione artistica ci viene in supporto e sublima tutto”.

“Il disco è molto apprezzabile e profondo nel suo complesso ma anche gli episodi presi singolarmente interessano molto, e prima facendo riferimento a “Ramu siccu” ripensandoci notavo che in quel caso hai utilizzato l’espediente poetico; il tema è bene a fuoco ma il testo assomiglia un po’ a una poesia”.

“Si, è vero ma in genere i miei testi non sono mai troppo espliciti, in questa canzone l’affidarmi a una metafora rende dolce un pensiero come che cosa pensate si possa fare con un pezzo di legno secco? Invece il testo nasconde tante cose e apre quegli spunti di riflessione cui accennavo prima”.

 

“Ramu siccu” è uno dei brani più rappresentativi del disco

 

“È molto evocativa in effetti questa immagine, poi in generale già il titolo dell’opera porta con se’ un’ambivalenza che è la stessa che emerge più volte tra i solchi del disco, e che possiamo associare in parte alla stessa Sicilia, una Regione che personalmente porto nel cuore, Terra piena di bellezza e di contraddizioni. Tu, pur non calcando la mano su certe situazioni e aspetti specifici sei riuscita ugualmente a trasmettere il senso di una Terra che vuole lottare e andare avanti, soprattutto raccontandocelo dal punto di vista femminile e lo hai fatto inoltre attingendo a diversi mondi musicali. Come hai coinvolto i vari ospiti in questo album? Sembrano proprio quelli “giusti” per far riversare nell’album le tante emozioni per un lavoro folk ma che presenta all’interno un’anima universale”.

“E’ stato come comporre un mosaico, ogni pezzettino aveva la sua enorme importanza e ha saputo colorare la relativa parte. Ogni mio brano comincia sostanzialmente dal testo, la musica di solito viene dopo, tranne che in un caso (che possiamo vedere come la classica eccezione che conferma la regola), il riff del giro di basso di “Moviti ferma”. Le parole vengono poi rivestite col giusto tono, l’andamento determina lo stile musicale che finisce quindi per rappresentare fedelmente il testo.

Ad esempio “Cunurtato”, che è una specie di reggae e in siciliano vuol dire coccolato, si dice di un bambino che viene cullato, e il reggae per me ha quell’andamento un po’ sensuale, dolce, che ti fa dormire ma ti tiene allo stesso tempo in attività, il reggae da sempre esercita molto fascino su di me”.

“Questo brano poi a primo ascolto mi colse proprio di sorpresa, per il suo stacco così evidente dagli altri che lo precedono. Penso sempre ci sia uno studio alla base di ogni scaletta, è così anche nel tuo caso?”

“Sì, è così, quella canzone si trova al posto giusto! Le sono molto legata, il testo vuole trasmettere un senso di conforto e quello te lo da’ il reggae, genere che ho ascoltato tanto, ci sono cresciuta ed è per me una naturale contaminazione che viene dai miei ascolti.  Come detto, le musiche variano a seconda dei temi trattati e delle atmosfere evocate dalle parole stesse. Nel già citato “Ramu siccu”, il versante musicale si adagia su una specie di elettronico trance rock molto vario, in cui gli arrangiamenti di Michele Musarra hanno aiutato molto a trasmettere proprio quello che avevo in mente e che già era connaturato in quegli episodi”.

 

Credit foto: La Flan
 

“A me ha colpito tanto anche il brano in cui hai coinvolto Agostino Tilotta. Ascolto molto indie rock e immagino che gli Uzeda a Catania siano un’istituzione, com’è stato lavorare con lui?”

“L’hai detto, lui è un personaggio enorme! Diciamo che per questo disco ho avuto due shock artistici se possiamo definirli così ma in fondo è proprio come mi sono sentita. Il primo è avvenuto per Cesare Basile (che è intervenuto suonando chitarra e percussioni in “Tridici maneri ri farisi munnu”, di cui ha anche curato l’arrangiamento), il secondo proprio per Agostino Tilotta.

Sai, sono stati due incontri che mi hanno anche aiutato a pormi in modo diverso, aprendo uno spiraglio su qualcosa che sono anch’io e che non sapevo di essere. In genere sono abbastanza guascona, non mi spaventa nulla, canto in tutte le tonalità e mi butto nelle cose, ma mi sono come “bloccata” quando ho incontrato quelli che sono anche dei miei miti! Ho dovuto ripensarmi e c’ho messo un po’ in effetti per ritrovarmi.

“Menza spogghia” è nata da un testo di Gaspare Balsamo (che introduce in modo suggestivo il brano), c’è lui che racconta una scena; avevamo dato il testo ad Agostino e Gaspare nel frattempo aveva inventato un pezzetto della melodia centrale. In pratica Agostino aveva solo quello, si è fatto lui il film della canzone, l’idea era di lavorare in studio tutti insieme per vedere cosa ne sarebbe uscito. Lui è arrivato, si è seduto con la sua chitarra acustica – Michele stava montando i microfoni – e si è messo a suonare, al ché mi sono ritrovata a piangere dall’emozione, credo proprio lui non se ne sia accorto e magari lo scoprirà soltanto adesso. Era del tipo “wow! Che mi sta succedendo?”. Quel giro di chitarra era così emozionante, se l’era inventato e costruito per me e per il mio disco, ed era già così “perfetto” per quella cosa che dovevamo raccontare. Anche il brano con Cesare è molto suggestivo e significativo, su una melodia di Puccio Castrogiovanni: sono così onorata che abbiano collaborato con me”.

 

 

“Mi sembra una figura molto importante fra gli altri anche Puccio Castrogiovanni, no?”

“Certamente, lui si occupa della direzione artistica, lavoriamo insieme e siamo molto affiatati. E’ sempre così visionario e pratico insieme, ha delle visioni e le mette in pratica, letteralmente; io ho intuizioni, illuminazioni ma sono anche autodistruttiva, dico potremmo fare quella cosa là e un attimo dopo si però verrà malissimo, sarà un fallimento, e lui invece tranquillo mi risponde: ma no, prendiamolo e iniziamo a lavorarci e poi finalmente vediamo che riscontro hanno nella realtà. E’ un po’ il mio contraltare artistico”.

“Tornando alla scaletta, e ribadendo quanto sia “magico” per me un pezzo come “Tridici maneri ri farisi munnu” (scritto dal poeta Biagio Guerrera), noto come siano ben bilanciati momenti in cui l’aria si fa più greve, quando racconti determinate situazioni, e altri in cui pervade un maggior senso di leggerezza: direi che i due poli ci stanno benissimo nell’album. Mi viene in mente ad esempio un brano come “Picchiu pacchiu”, una canzone deliziosa che segue un certo filone e mostra un’altra faccia rispetto a quei pezzi più intimi e chiaroscurali. Cosa mi puoi raccontare in merito?”

“Picchiu pacchiu” rappresenta la mia parte teatrale, ed è nata da un testo geniale di Carmelo Chiaramonte, che è uno chef. La mia idea alla base era di raccontare un mondo riferimento, scandagliando quel particolare humus creativo che vedevo attorno a me in questo momento, in questi anni a Catania, coinvolgendo quelle persone la cui creatività sentivo simile alla mia. Volevo assolutamente scambiare delle cose con loro: se ci pensi i vari Giovanni Calcagno, Marinella Fiume, sono tutte personalità pazzesche!

A ognuno avevo chiesto di interpretare un tema, a Carmelo nella fattispecie una ricetta, ma lui è andato molto oltre, avendomi addirittura costruito attorno una storia dove sembro proprio io la protagonista, se si facesse un videoclip potrei benissimo essere io a interpretare la scena, anzi mi vedo con la vestaglia allacciata davanti che va al mercato e poi torna a casa e cucina: sono “dentro” a quella cosa, è come dicevo la mia parte teatrale che riemerge prepotente, come nel primo disco dove interpretavo un personaggio”.

“Questo brano mi ha colpito molto, perché a differenza di quelli dove sei meno diretta, qui invece attraverso le parole di Carmelo ti si disegna davanti la scena e lo stesso effetto me lo fa “A merca”: questo particolare aspetto del disco me lo rende vitale, in quanto non c’è un’unica direzione né a livello musicale né di atmosfera del pezzo o nei testi, cosicché ogni traccia acquista la sua importanza nel contesto generale.

 

 

Eppure, al di là di un racconto molto immediato, nell’introduzione di “A merca”, il cui ascolto è appunto lineare, tu hai dato un significato molto importante: l’aver coraggio di osare fin da quando si è bambini. Anche qui ricorri alla metafora affidandoti a un ricordo preciso?”

“Qualche tempo fa avevo assistito a una di quelle short talks, delle brevi conferenze a tema scientifico, nella quale una donna ricordava di essere coraggiose piuttosto che perfette, e io l’ho trovata una frase illuminante, ho ricostruito la mia vita, ricordando un episodio a cui avevo pensato ripetutamente nel corso di questi venti anni. Avevo vissuto sulla mia pelle quella cosa, capivo a che si riferisse. La paura delle sfide era un tema ancora attuale, era “vero” ma perché? La risposta è che il mio ideale inculcato di donna è “essere perfetta”, perchè altrimenti subisci delle implicazioni, estremizzando sei portata a pensare che se non rispondi a certi canoni ti vogliano meno bene, sei meno amata, sei dileggiata, una serie di stati d’animo che i miei amici maschi non hanno mai provato”.

“Mah, forse in misura minore ma credo riguardi anche i maschi…”

“Non so, probabilmente aprirò dei dibattiti quando presenterò spero a breve le mie canzoni sui palchi, magari le mie saranno tesi se vuoi semplici o bizzarre ma penso davvero che le donne sono cresciute con l’idea di essere perfette, mentre gli uomini sono “addestrati” per essere coraggiosi. Poi gente come Puccio o Biagio Guerrera, due compagni “di cuore”, persone molto vicine (quindi parlo di un’umanità non troppo lontana da me), sostengono che questa tesi sia applicabile in genere alle persone e non solo alle donne”.

“Sinceramente lo credo anch’io, specie nella società attuale. Vent’anni fa magari no ma al giorno d’oggi i quindicenni, parlo dei maschi, sentono eccome il peso di essere perfetti. Ho insegnato anni fa in una classe di adolescenti e già si vedeva un cambiamento culturale, quindi concordo con i tuoi compagni musicali”

“Forse perché anche tu tendenzialmente sei un artista, e quindi ci può essere una sensibilità diversa, invece nel maschio tipico questa cosa non l’ho mai riscontrata. Proprio il protagonista del racconto di “A merca” in fondo viene incontro alla mia tesi. Lui è un mio vecchio amico, ora fa l’avvocato, e dice che con quel brano l’ho inchiodato alla sua vera natura, si è rivisto in ciò che ho scritto e che volevo trasmettere. Dice anzi che le sfide lo accendono, e parole sue: “io vivo solo se sono coraggioso”. Non ne avevamo più parlato di quell’episodio ma è stato un attimo rivivere quei momenti, ci siamo subito capito, sapevamo entrambi a cosa si riferisse quella canzone”

 

Io con la mia copia di “Moviti ferma”, il bellissimo album di Eleonora Bordonaro
 

“Parlami ora dell’importanza del dialetto siciliano nelle tue canzoni, che a mio avviso dona autenticità e fascino al tutto. Come ti sei avvicinata al suo utilizzo in ambito artistico?”

“Una cosa che mi contraddistingue e che ho sempre voluto portare avanti è con quale dialetto esprimermi? e la risposta che mi sono data è che nelle mie canzoni io avrei utilizzato il siciliano “vero” e di questo, lo ammetto, ne vado abbastanza fiera. La mia attenzione infatti è per il siciliano parlato normalmente, nella vita di tutti i giorni, non un siciliano “italianizzato”, edulcorato; magari può essere un limite ma se devo farlo per amore della lingua, non ha senso che io volendola diffondere lo faccia in modo sbagliato”

“Questo è un punto di contatto che riscontro in altri artisti che si esprimono in dialetto, sono d’accordo che dev’essere come dici tu: verace, autentico, se vogliamo tramandare qualcosa di reale”

“Assolutamente, quello che propongo è il dialetto che parlava mia nonna, è un dialetto degli anni ‘60 e ’70, mi interessa trasmettere qualcosa che ci riguardi più da vicino, senza timore di guardare al passato”.

“Nell’album fai ricorso anche a un dialetto ancora più particolare, il Gallo Italico, in un brano come “I dijevu di Vurchean”,che assieme a “Omu a mari” (dove intervengono i Lautari, nda) rappresenta un’escursione letteraria. Non conoscevo questo dialetto, è così rilevante nella tua zone?”

“In realtà non è preminente affatto nella mia zona d’origine, ma nelle mie “perversioni” sì… è parlato solo da una piccola comunità di 3000 abitanti, San Fratello, e deriva da quei soldati che ai tempi della dominazione normanna arrivarono qui dal Nord Italia, quindi semplificando è indicato come il Lombardo di Sicilia”.

“Un po’ come il Cimbro dalle mie parti, che ha ascendenze totalmente diverse rispetto al veneto”

“Sì, sono quelle storie che mi affascinano enormemente, questa gente ha mantenuto inalterata nei secoli la propria lingua, si capiscono solo tra loro, a 15 km da lì non li comprende più nessuno e per me questa cosa è pazzesca: come si fa a essere così contaminati e allo stesso tempo così isolati e caparbi nel mantenere una propria identità? E poi è una lingua veramente poetica, possiede un suono speciale del quale i sanfratellani hanno sempre sottovalutato la potenzialità. Una lingua in cui le note si appoggiano sulle vocali, e ciò la rende musicale, in fondo anche l’inglese è così e di questo “limite” ne ha fatto la sua forza espressiva”.

“A livello musicale quel brano è altrettanto intrigante, visto che riprende la melodia di un classico del repertorio di Bahia del musicista Paulinho Do Reco, in questo caso come ti è venuta la suggestione?”

“Beh, un altro dei miei amori è per la musica brasiliana, che è in qualche modo la voce del popolo ma parla al cielo, ha con sé una visione trascendente, la versione di Bahia poi si usa nel Carnevale e parla degli Orisha, della divinità, ma racconta allo stesso modo la bellezza della razza nera, degli afro discendenti brasiliani e del loro orgoglio”.

“E quindi hai associato queste caratteristiche alla comunità di San Fratello che si esprime ancora in Gallo Italico, è corretto fare un parallelismo in questo senso?”

“Esattamente, quel testo parlava dei ricchi, che hanno benefici anche se vedono i poveri soffrire, ma si dice che arriveranno prima o poi i diavoli dall’Isola di Vulcano e… infine li prenderanno a mazzate! Che poi quella cittadina si trova di fronte all’isola di Vulcano, nelle Eolie, e chissà loro anticamente cosa immaginavano, che vedevano al di là del mare”.

 

 

“Veniamo ora a un altro aspetto, quello della vocalità, che soprattutto nel tuo genere di riferimento che, per quanto sia difficile definirlo, potremmo inquadrare nella world music, diviene fondamentale. La voce infatti diventa essa stessa strumento nei dischi di questa matrice, e l’interprete non soltanto deve mettere la fisicità nei live ma proprio sfruttare al massimo la forza espressiva, l’intonazione: quando hai scoperto che la tua voce sarebbe diventata un mezzo, uno strumento? Quando hai compreso di possedere un talento?”

“In realtà molto presto, direi da quando avevo 2 anni e mi veniva naturale cantare, tanto che dividevo il mondo in chi conosce le parole di una canzone e chi no, cioè quella era per me la discriminante per chi volesse cantare o meno. L’unico ostacolo nel mio pensiero da bambina poteva essere quello: il non conoscere le parole. A 11/12 anni mi hanno detto “tu hai una voce” ma non ne ero ancora del tutto consapevole, anche se poi ricostruendo la mia storia e andando a ritroso nel tempo, è vero che durante le recite facevano cantare sempre me, da sola, non in coro e la canzone la cantavo tutta dall’inizio alla fine ma non sapevo certo di avere un particolare talento rispetto ad altri. Solo molto più tardi ho capito che avevo una peculiarità, ma non ho studiato musica (mi sono laureata in giurisprudenza, per dire), il fatto di fare qualcosa di importante in questo campo lo escludevo proprio dalla mia vita”.

“Però immagino tu avessi già un bagaglio musicale, una tua gamma di ascolti preferiti, prima mi parlavi della passione per il reggae o per la musica brasiliana”

“Sì, se per quello cantavo già in alcuni gruppi e mi cimentavo in alcuni spettacoli, mi esibivo nelle feste di piazza ma nulla che potesse farmi presupporre un mio personale percorso artistico”.

 

Credit foto: La Flan
 

“Non pensavi quindi che vent’anni dopo ti saresti trovata finalista al Premio Tenco e intervistata da Gianni Gardon?” (scherzo)

“No, in effetti no, ah ah. Davvero, il fatto di scrivere lo avevo escluso, pensavo che al massimo sarei stata un’interprete di canzoni che esistevano già ma anche come cantante in quei primi tentativi non avevo un genere preciso: cantavo di tutto, da Aretha Franklin agli Skunk Anansie, riuscivo a interpretare perfettamente Tracy Chapman, una dei miei grandi amori! Mi ricordo un mio regalo di Natale di nonna: mi diedi i soldi e andai al negozio a comprarmi la cassetta… disse che non era un regalo “utile” ma era una cosa preziosa che mi faceva stare bene! All’epoca la musica iniziava a insinuarsi sotto pelle, tornavo da scuola, mia mamma magari era ancora al lavoro e io mentre riscaldavo il pasto cantavo e cantavo, cercando le canzoni più difficili e pensavo in un primo momento di non farcela, finché invece poi riuscivo dopo qualche tentativo a riprodurre tutto. Poi è arrivata Rachelle Ferrell e lì è cambiato tutto, la voce diventava la vera protagonista: rappresentava la piena libertà, secondo ovviamente le possibilità anatomiche di ognuno”.

“Quindi a un certo punto i tuoi modelli di ispirazione hanno iniziato a delinearsi, quelli che potevano rispecchiare la tua musicalità. Quando è avvenuto il tuo passaggio in territori world? Quando ti sei specializzata in certi ambiti, che poi ti hanno condotto verso una strada più personale?”

“Mi sono specializzata, o meglio diciamo che sono entrata direttamente in contatto con la musica world nell’Orchestra Popolare Italiana di Ambrogio Sparagna, lì davvero ho scoperto quanto mi venisse naturale cantare in siciliano, senza con questo dover necessariamente seguire gli stilemi tramandati e fatti propri da Rosa Balistreri, la cui musica è stata un privilegio ma allo stesso tempo un limite per chi si affacciava come me alla musica cantata in dialetto. Non avendo molti riferimenti culturali in tal senso, se non quello, praticamente da noi tutti quelli che si avvicinano a questo mondo cercano di emularne la voce e il particolare cantato, ma Rosa Balistreri era autentica e ha cercato e si è costruito il suo modo di cantare perché poteva essere solo quello, l’unico che potesse rappresentarla nella sua sofferenza: aveva quell’emissione, quella carica, quella potenzialità, ruvidità, brillantezza, tutte componenti importanti che lei trasmetteva in maniera spontanea. Le stesse peculiarità esercitate pari pari da noi donne di quest’epoca cresciute in un mondo “borghese” non rendono bene. Anzi, volendo riproporne a forza lo stile, diventa una mera imitazione e tutto ciò lo considero francamente ridicolo”.

“E’ una cosa che ho notato anche in altre Regioni d’Italia, come ad esempio in Puglia, Terra d’origine di mia moglie; anche lì si è in presenza di una vasta tradizione culturale che ricorre all’uso dei vari dialetti ma da parte dei nuovi interpreti si nota un’esigenza quasi di trovare una propria chiave personale a livello meramente interpretativo, senza scimmiottare i grandi del passato, pur rifacendosi inevitabilmente alla tradizione (sennò nemmeno si chiamerebbe “musica popolare”). Credo sia opportuno, e lo dico da amante delle canzoni in dialetto, che ognuno trovi una strada, contaminando la propria musica come hai fatto tu in questo disco”

“Grazie delle tue parole, nel mio caso ho lavorato anche sulla pronuncia, sull’enunciazione di certe parole, poiché in genere la pronuncia siciliana è spesso cupa, gutturale, intensa ma molto chiusa. Io reputo sia importante assecondare l’intensità dell’emissione della parola in base al suo significato. Forzare una pronuncia, calcandola, per assomigliare a qualcos’altro, per me non era una cosa divertente. Così, se tu ascolti una canzone come “Picchiu pacchiu, intono un siciliano che sembra brasiliano, alle parole do’ un suono più leggero, mai forzato. Almeno speravo di fare questo, non so se in effetti ci sono riuscita”

“Beh, io non sono propriamente di madrelingua ma sento una vocalità per nulla pesante, anzi, a tratti direi che è molto dolce”

“Sì, può essere dolce ma anche disperata, basta che si adatti al tema, all’atmosfera di un determinato momento del racconto, non è più insomma quella cosa gutturale, di petto, che sono poi le riproposizioni uguali allo stile tradizionale. Il mio è un tentativo che ho introdotto in questo album, quello vorrei fare e spero sia così in futuro”.

“Ecco, mi dai il gancio per un’ultima domanda, che vorrei riguardasse il futuro ma che inevitabilmente mai come in questo 2020 è prima di tutto condizionato dal presente. Questo progetto per forza di cosa è stato stoppato sul nascere e mi auguro di cuore che riuscirai a esibirti presto. Quanto ti manca il non aver portato in giro questo lavoro così ricco? Hai nel frattempo messo in circolo altre idee? Cosa vedi a livello artistico nella tua sfera di cristallo?

“Eh, un titolo più premonitore di “Moviti ferma” (che ricordiamo significa “resta ferma”) non avrei potuto trovarlo, visto che è uscito un giorno prima del lockdown generale! Scherzi a parte, dentro di me questo lavoro deve essere ancora vissuto, consumato ed elaborato fino in fondo, sento che ha ancora tanto da trasmettere agli altri e anche a me stessa. C’è un percorso da fare, devo poter raccogliere delle cose che al momento non posso ancora prevedere. Non sono stata molto creativa in questo periodo, ci sono delle fasi quando scrivo, quella dell’incubazione e della restituzione che passa attraverso la produzione, la realizzazione delle idee. Non sono ancora pronta a far ripartire il ciclo creativo ma in realtà c’è un’ idea che mi balena per la testa da quando ho accolto con entusiasmo un’altra grande suggestione di Puccio Castrogiovanni.

 

Credit foto: Paolo Benegiamo
 

Siamo in pratica a un bivio, avevamo due scelte dopo che l’album era arrivato in finale al Tenco: o aprirsi alla lingua italiana, qualcosa di più pop, oppure calcare la mano su questioni prettamente artistiche, e siamo concordi che la strada da intraprendere sia quella di osare di più, magari coltivando ancora maggiormente l’utilizzo del Gallo Italico”.

“Il Gallo Italico ha colpito tanto anche me, il brano in questione si stagliava veramente dal resto della scaletta e direi che dedicare un intero progetto a questa lingua così misteriosa e ricca di storia potrebbe rivelarsi una carta vincente e particolare”

“Per me è importante continuare a esplorare nuovi territori, nuove soluzioni, devo sentirmi viva quando scrivo e creo arte. Quando ascolto il Gallo Italico mi giungono sensazioni forti, variegate, e la sfida è poi quella di riuscire a riversarle intatte in un album. Spero che per l’ascoltatore sia emozionante, energico, toccante, e per questo vorrei che i miei lavori arrivassero a più persone possibili”.

“Il tuo disco doveva rimanere fermo, invece è arrivato eccome a parte della critica…”

“E’ vero ciò che dici, il disco si è mosso! Mentre io me ne stavo ferma a casa di mia madre, sull’Etna a guardare le montagne o facevo yoga, lui ha fatto il percorso che doveva fare ma adesso quella strada dobbiamo percorrerla insieme, io con il mio disco devo andare nei teatri e farlo suonare, renderlo vivo più che mai, perché la mia dimensione è il live. Ho fatto finora due dischi di cui sono felicissima e orgogliosa ma il palco è il luogo dove succedono un sacco di cose, dove mi esprimo al meglio, chiacchiero, sono protetta, è la parte di vita in cui sono sicura che non può succedermi niente, è come se avessi tutto sotto controllo, mentre evidentemente sul palco non hai proprio niente sotto controllo!”.

“Beh, è una cosa tua quella lì, ormai l’ho capito!”

“So che sembra assurdo infatti, ma proprio lì dove succede ogni imprevisto (si spegne una spia, manca la luce, mi scappa uno starnuto, insomma di tutto e di più), io mi sento come dire… “invincibile” e questo lo vedo perché prima di tutto mi diverto. A maggior ragione dopo che ho trovato la mia lingua, il siciliano, e con esso un contenuto, perché finchè cantavo le canzoni di Aretha o della Ferrell, sì, volevo bene alla mia voce e mi piaceva l’energia che ne veniva fuori, ma in fondo non ci credevo perché mi mancava un pezzo, e quel pezzo è il contenuto, la mia storia. Prima cantavo quelle stesse cose che avrebbero potuto essere interpretate da altri, adesso che finalmente sto trovando la mia strada e canto le mie cose, è tutta un’altra storia!”

“E io direi che di contenuti ne hai parecchi e sono contento di averli sentiti dalla tua voce”

“Grazie Gianni, a te”

Il consiglio mio, cari lettori, è quello di abbandonarsi alla musica di questa artista, così multiforme e affascinante, perché potrete rimanerne letteralmente conquistati.