USA 2008

Un pensionato razzista e all’antica, non in pace con se stesso e con il prossimo, perde la moglie e si ritroverà invischiato nelle vicissitudini dei vicini orientali in conflitto con bande locali.

Buono il soggetto anche se la cosa migliore è la direzione sempre precisa, rigorosa e attenta del gran cineasta e attore Clint Eastwood che a 78 anni forse firma il suo film/testamento. Il protagonista, interpretato dal regista (in questo caso anche produttore), è un reduce di guerra, più precisamente di quella di Corea, che vive ancora condizionato da una esperienza tanto forte e incisiva come il fronte. Buono il ritratto di questo vecchio americano tutto d’un pezzo che in un certo senso rivede la sua visione della vita. La società attuale non appartiene più al vecchio protagonista, gli va stretta, e per questo cerca una rivincita nei confronti di quest’America multietnica e senza più valori in cui credere. Tra i temi trattati spiccano quello dell’amicizia tra giovani e vecchi, del fardello del fallimento che un uomo può portarsi dietro tutta una vita, del cambiamento come rivalsa e di una famiglia che con il tempo ha perso il suo significato intrinseco e più puro.

La pellicola trasuda americanità, un’americanità bigotta, provinciale, dove la giustizia la si fa da sé, ormai soppiantata dalla multiculturalità. Stilisticamente quasi ineccepibile anche se pecca di eccessiva asetticità, come molte pellicole americane (così come anche il finale smaccatamente ad effetto, anche se in questo caso appropriato alla pellicola e non la svilisce particolarmente). Film amaro che sembra voler dire allo spettatore che la pace, sia interiore che esteriore, la si può trovare solo con la morte. In questa bella prova il cineasta Eastwood conferma le proprie doti di narratore: lo si può tranquillamente definire uno dei pochi che segue i fasti e gli insegnamenti dei grandi registi americani del passato.