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Hereafter

Scritto da: Vanoli

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Il nuovo capolavoro di Clint Eastwood (2010)
Ancora una volta il vecchio e saggio Clint Eastwood non delude le enormi aspettative suscitate ormai da un decennio a ogni puntuale uscita di un suo nuovo lavoro.

Una vera e propria seconda giovinezza artistica per il selvaggio cowboy che fu, che dopo gli exploit di “Bird” e “Gli spietati”, sembrava aver perso parte del suo smalto nei panni di arguto regista in grado di spiazzare intelligentemente lo spettatore.

Invece dagli anni ’90 in poi il suo nome è legato sempre più indissolubilmente a storie di un’intensità senza pari, di una profondità ricca e varia, a seconda dei personaggi tratteggiati sapientemente e sempre con una grande punta di empatia, anche quando il protagonista sembrerebbe di primo acchito non poterne suscitarne alcuna.

Trepidante quindi mi sono accinto alla visione del nuovo lungometraggio, “Hereafter”, letteralmente “l’aldilà”, ben consapevole che un argomento così rischioso di fraintendimenti sarebbe stato trattato con i guanti, con la giusta sensibilità, andando a toccare le corde più intime che si celano in ognuno di noi.

Il risultato, dopo poco meno di due ore di film (quando solitamente Eastwood faticava a contenere una trama in 3 ore!) è stato soddisfacente e la mia attesa ripagata nel migliore dei modi.

Pur non raggiungendo l’alchimia narrativa di “Mystic River”, pur non essendo toccante come “Changeling” (forse il migliore del lotto, in quanto ad intensità), e non riuscendo a destabilizzare come “Million Dollar Baby”, a coinvolgere emotivamente come “Invictus” o a possedere l’innata raffinatezza di “Gran Torino”, “Hereafter” ha il pregio di essere un centrifugato perfetto di questi titoli messi insieme, una “summa” del Clint Eastwood-pensiero, un mix riuscito di eleganza, sobrietà, pudore e sensibilità, tutte componenti essenziali nel momento in cui ci si volesse approcciare ad un argomento così affascinante e misterioso, come il significato della vita dopo la morte.

Sorretti da un efficace Matt Damon, che da tempo ha smesso i panni del sex symbol, senza per nulla perdere il suo magnetismo interpretativo, il film gioca su un intreccio narrativo senza entrare nel merito di cosa sia giusto o sbagliato, semplicemente mettendo in scena le emozioni e le motivazioni dei protagonisti, la giornalista francese, il bambino rimasto senza fratellino gemello, vittima di un assurdo e crudele destino e appunto Damon, nei panni di un sensitivo, che si è ritrovato suo malgrado a convivere con un dono, ben presto trasformato in condanna, in quanto di impedimento allo scorrere di una vita reale.

Eastwood, pur lanciando dei sassolini, non intende prendere una posizione netta sul tema principale che da il titolo al film, lascia piuttosto aperte le interpretazioni, anche se man mano che l’azione procede, via via lo scetticismo e il dubbio viene allontanato da una speranza, un’aspettativa reale più che una semplice, per quanto salvifica visione di un aldilà, in cui manca il senso di gravità, di peso e tutto è etereo, bianco, soffice intorno a noi, in un clima di rasserenato nirvana spirituale.

Lontano da una concezione cristiano-cattolica, insita comunque nel messaggio, il regista e i personaggi da lui creati, sono alla ricerca di una spiegazione scientifica di un fatto che per sua natura è inintelligibile, non tangibile, in quanto pervaso da quella forza motrice che è la fede.

È vero, una ricerca del genere può provocare un grande entusiasmo e un’energia prorompente, ma rischia anche di diventare una “crociata solitaria”, parafrasando quanto detto da una luminare alla protagonista andata in cerca di una spiegazione alle sue visione. Si possono incontrare enormi ostacoli e beffardi contraltari, ben rappresentati dai tanti ciarlatani incontrati lungo la sua strada dal bambino, fino all’incontro decisivo col sensitivo George. Ma ciò che ci lasciamo dentro di noi, al termine della “visione” del film è un grande senso di speranza, un’esperienza positiva, una sorta di redenzione. Spesso i film di Clint Eastwood ti toccano nel profondo, lasciando un senso di amarezza, un pugno nello stomaco, pensando allo splendido film con Hillary Swank nei panni di un pugile; qui invece rimaniamo pervasi da una grande positività e da un senso di appagamento.