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Gran Torino (Clint Eastwood)

Scritto da: Innocenzo Alfano

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Funerale della moglie all’inizio, funerale suo alla fine. In mezzo, alcune settimane di ordinaria esistenza in un quartiere periferico e multirazziale di una grande città del “midwest” degli Stati Uniti d’America (la città è Detroit, ma l’informazione si evince solo dai titoli di coda del film). Fa riflettere Gran Torino, commovente e drammatica storia diretta, nel 2008, dall’ormai leggendario Clint Eastwood, attore e regista caro al pubblico italiano grazie alla “trilogia del dollaro” realizzata una cinquantina d’anni fa – il tempo passa davvero inesorabile... – dal compianto Sergio Leone.

Sono due gli argomenti principali sui quali si concentrano Eastwood e lo sceneggiatore Nick Schenk: la critica della guerra, anzi delle guerre, e i pregiudizi nei confronti del diverso, cioè dello “straniero”, ossia verso gli immigrati, in particolare quelli che hanno un colore della pelle differente (di solito un po’ più scuro del colore della pelle di chi si sente “minacciato”) e parlano un idioma incomprensibile.

La critica della guerra e dei suoi indicibili orrori è svolta rievocando quella di Corea del 1950-1953, alla quale Walter Kowalski / Clint Eastwood ha partecipato uccidendo «tredici persone, forse anche di più». Ma “Walt” non ne è particolarmente fiero, anche perché, nella stessa guerra, sono morti tutti i suoi amici, ed inoltre tra i “musi gialli” (come egli li chiama per quasi tutto il film) uccisi ve ne è uno il cui ricordo lo tormenta da decenni: un ragazzo a cui ha sparato in pieno volto mentre questi, indifeso, gli chiedeva aiuto. Per queste ragioni l’ex soldato Kowalski conserva la medaglia di eroe di guerra non dentro una cornice appesa alla parete del salotto di casa, in bella mostra, ma nello scantinato, in un baule insieme a ritagli di giornali dell’epoca, dove nessuno la può vedere. Non c’è nulla di eroico nello sparare a gente inerme per difendere non si sa bene quali interessi a migliaia di chilometri di distanza dai confini nazionali.

Ma, come dicevo, Clint Eastwood costruisce la storia anche sui pregiudizi degli individui nei confronti del diverso, o, meglio, dei tanti possibili diversi, qui rappresentati dai componenti di una famiglia asiatica vicina di casa di Kowalski emigrata negli Stati Uniti per sfuggire alla povertà e ai conflitti armati a sfondo politico-ideologico. Il fervente patriota Kowalski disprezza e forse odia i suoi nuovi dirimpettai, gente che ha preso il posto di chi ha deciso di trasferirsi altrove, immaginando che, proprio perché non americani e neppure bianchi, non potranno mai avere nulla in comune con lui e con tutti quelli come lui, salvo poi rendersi conto con stupore, dopo aver casualmente – e controvoglia – iniziato a frequentarli, di «avere più cose in comune con questi musi gialli che con quei depravati dei miei figli!».

I pregiudizi e la scortesia iniziali, piano piano, lasciano dunque il posto alla cordialità ed al piacere nell’intrattenere rapporti con i nuovi, simpatici, vicini, persone perbene e che solo l’ottusità e troppi luoghi comuni avevano impedito di conoscere meglio. Ad un certo punto l’amicizia di Kowalski per quel gruppo di asiatici fino a poco tempo prima del tutto sconosciuti sostituisce i rapporti, da sempre superficiali, tra lui e i suoi parenti (figli e nipoti). Attraverso questa nuova amicizia, vera, gratificante e soprattutto impensabile per un burbero razzista come lui, Walter Kowalski trova anche il modo per espiare finalmente il crimine commesso in Corea. Lo fa nell’unico modo che egli concepisce in circostanze del genere: va in chiesa, si confessa (per la prima ed unica volta in vita sua), dopodiché, disarmato, va a farsi crivellare di colpi da una gang di delinquenti asiatici che terrorizza i suoi nuovi e preziosi vicini, provocando l’arresto di tutta la banda ed assicurando, nel contempo, un futuro più sereno a quegli stessi vicini un tempo detestati. Nel testamento lascia tutti i suoi beni alla parrocchia del quartiere, tranne l’automobile, una fiammante Ford Gran Torino del 1972 donata al giovane Thao, il quale, quando i due ancora non si conoscevano, aveva tentato goffamente di rubargliela costretto dalle minacce di un cugino malvivente. In seguito Thao era diventato il suo migliore amico, e forse, a causa dell’età, gli ricordava anche il ragazzo ucciso a sangue freddo quasi cinquant’anni prima.