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Deep Purple - Perihelion

Scritto da: Alberto Calorosi

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La fuoriuscita di Richie Blackmore dai Deep purple sortisce molteplici effetti.
Naturale la transizione verso un chitarrismo di altra natura: Steve Morse, ormai lontano dall’hard-prog americano che lo ha amorevolmente cullato per almeno un paio di lustri, si rivela un esecutore persino più ‘metal’ di Blackmore nel diteggio à-la Brian May (non sempre, beninteso). Ma non solo questo: l’intero Purple-sound si rinnova, come testimonia la brusca virata del 1996 – sono in molti coloro che ancora non riescono a credere che Slaves and masters, The battle rages on... e Purpendicular siano usciti uno dopo l’altro. Lasciato da parte quell’hard-rock-a-tutti-i-costi così caro Blackmore – prima, naturalmente, che una senile visione della gnocca da vicino gli otturasse la vena dal libero arbitrio consegnandolo anima e corpo alla causa del ‘medieval-rock ’ (parole sue).
Ebbene: Purpendicular, primo album del dopo-Blackmore è semplicemente un capolavoro. Rappresenta, a mio umilissimo modo di vedere, la miglior prova in studio dai tempi quel Fireball uscito ben 25 anni prima.
In Purpendicular l’hard-rock rimane filo conduttore di un album incredibilmente variegato, sia che si tratti di puro riff (Ted the mechanic, A castle full of rascals) oppure di contaminazioni funky (Hey Cisco), blues (Purplendicular waltz), senza ovviamente tralasciate la ballad (Loosen my strings, The aviator e soprattutto quella struggentissima Sometimes I feel like screaming che forse identifica più di ogni altra il dopo-Blackmore).
Dal vivo, gettati alle spalle il rigore e i capricci Blackmoriani, un rinnovato affiatamento Glover/Paice nella sezione ritmica, un Gillan che può finalmente gigioneggiare con armonica, tamburello, bonghi vari (l’avesse fatto Joe Lynn Turner, sicuro che Blackmore gli usava i coglioni come plettro), una trazione, ora, esclusivamente Lord-iana. Chiare testimonianze sono il Live at the Olympia ‘96 (una su tutte: Cascades: I’m not your lover) e il DVD eufemisticamente intitolato Perihelion, successivo di cinque anni eppure anch’esso curiosamente incentrato più o meno ulla medesima scaletta. Le performance dei Deep purple versione terzo millennio, di cui Perihelion rappresenta una più che onesta testimonianza, si concretizzano in una (si perdoni l’ossimoro) rodata miscela di queste nuove tendenze. Le cose cambieranno – in peggio, sfortunatamente – soltanto un paio di anni più tardi, con la sostituzione di Jon Lord da parte del mestierante di lusso Don Airey.
Perihelion testimonia questa convinta ricerca di nuove sonorità, anche a scapito del virtuosismo (pochi gli assoli, praticamente uno a testa tutti concentrati nel bis Black night), o perlomeno un redivivo desiderio di riverdire quelle suggestioni prog che sovente animarono certe composizioni primi-70, prima che Blackmore Rainbow-izzasse se stesso in primis e l’intera band in secondis.
E così, in Perihelion, sorprenderà, nel bene o nel male, la presenza in scaletta di Fools – esecuzione a mio modo di vedere soltanto parzialmente riuscita: l’intro soft, quasi psichedelica lascia presagire una rivisitazione ottimamente pensata, ma tutto crolla nell’assolo centrale; quell’assolo rarefatto, ipnotico, esemplarmente eseguito su album viene qui banalizzato, quasi che nessuno avesse bene idea di che fare in quei cinque minuti; certo da fare non erano quei quattro accordi d’organo da ‘andateinpace / rendiamograzieaDio’ né quella lunga schitarrata aggraziata come un un elefante in una cristalleria.
Sorprenderanno – magari non troppo – le atmosfere funky di Lazy e Hey Cisco. Sorprenderanno una divertita Mary Long e una (inspiegabilmente) monca No one came per il semplice fatto di essere presenti in scaletta. Ma soprattutto sorprenderà l’esecuzione di Perfect strangers, in primo luogo da parte di chi si ricorda le esecuzioni della MK2 mid-90
Eh, già, la differenza dei Deep purple con Steve Morse rispetto alla formazione con Blackmore sta pressappoco tutta qui. Bartali o Coppi? Duran o Spandau? Blackmore-iani e Morse-iani probabilmente se le daranno di santa ragione per un altro paio di generazioni, ma se Morse non potrà mai neppure avvicinarsi al rigore Blackmoriano nel superfinale di Highway star è altrettanto vero che la sua When a blind man cries supera emotivamente certe scialbe esecuzioni del blasonato predecessore.