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On the road

Scritto da: Vanoli

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… da vedere solo se si ha letto il libro!

Mettersi alla visione di un film tratto da uno dei tuoi libri preferiti in assoluto può spesso rivelarsi un’arma a doppio taglio, o un boomerang. Ma, si sa, la curiosità è sempre tanta, sia per vedere come un regista se la potrebbe cavare a tradurre in immagini quelle splendide pagine che tanto ti hanno coinvolto ed emozionato, sia anche per giudicare se il cast è quello più idoneo, se i personaggi che ti sei sempre immaginato corrispondano poi agli attori scelti per interpretare la pellicola. Queste cose si ingigantiscono quando riguardano non solo il tuo libro preferito, quello che magari è solo tuo, ma al contrario sono riferite a uno dei libri cult per eccellenza del secolo scorso, spesso ambito da produttori e registi ma mai portato a compimento in una trasposizione cinematografica. D’altronde se ce l’ha fatta Peter Jackson (egregiamente, nonostante il parere discordante dei “puristi” tolkieniani) con un “librone” come “Il Signore degli Anelli", perché non avrebbe potuto fare bene anche Walter Salles, da me già apprezzato tantissimo nel suo precedente “I diari della motocicletta”, sul giovane Ernesto Guevara, alla scoperta dell’America Latina?

E allora spazio al commento, spero poco inficiato dal fatto che appunto, lessi in epoca adolescenziale il famoso libro manifesto del beat, scritto da Kerouac.

Innanzitutto ho trovato discreti gli attori protagonisti, specie Sam Riley, che impersonava Sal Paradise (vale a dire lo stesso Jack Kerouac, piuttosto che un Garrett Hedlund, sicuramente “figo” e tosto ma meno aggressivo e ripugnante di quanto non mi apparisse nel romanzo il folle Dean Moriarty, alias Neil Cassady, l’altro “eroe” del beat; così così la celebre Kristen Stewart, sicuramente bellissima e ricca di fascino ma forse davvero troppo lontana da come ci siamo abituati a conoscerla.

Il resto del cast è ben assortito, piccolo cameo per Viggo Mortensen, alle prese con l’alter ego di Burroughs e magari non molto credibile il “Carlo Marx”, cioè il poeta Allen Ginsberg.

Ciò che consiglio vivamente è di leggersi prima il libro, non perché il film non sia ben fatto, anzi Salles riesce nell’intento di accompagnare lo spettatore nei meandri degli Stati Uniti, testimoniando la fine di un’epoca e il passaggio clamorosa a una nuova società, con i primi paletti sbattuti in faccia alla casta borghesia dell’epoca… certi paesaggi sono mozzafiato e ricordano lo stile de “I diari della motocicletta”, tuttavia ritengo che senza una benché minima infarinatura sul movimento beat (e in sala l’idea che ho percepito è stata quella) non sia possibile cogliere del tutto le sfumature di un grande vuoto esistenziale e di ideali che attraversa gli stati d’animo di tutti i protagonisti, specie di Dean. Insomma, il film si dispiega bene e non dà giudizi di sorta, ma il rischio che venga ridotto a una macchietta in cui mostrare giovani “artistoidi” che hanno in mente solo ubriacarsi, drogarsi e scopare è forte, in quanto necessariamente certe istanze poetiche e filosofiche che caratterizzano il libro vengono quasi depennate nella trasposizione filmica, e questo è un peccato, perché certamente non era l’intento del bravo regista. Il beat è stato prima di tutto una rottura agli schemi consolidati, e per quanto quegli artisti vissero davvero pochissimo, bruciandosi senza spegnersi a poco a poco, consumando la vita in una breve e sfrenata corsa, molti giovani poi li presero a esempio per portare a compimento una rivoluzione sociale con tutti i crismi… d’altronde certe intemperanze e certi slogan venuti da lì a poco dalla voce di Jim Morrison nascono proprio da quelle appassionanti letture. Insomma, per quanto si parli ormai di un mondo lontano, quasi improponibile in un’epoca in cui si è perso in molti ambiti una connotazione intellettuale dell’arte, dello scrivere o altro ancora, è sempre esercizio utile andare a ripescarsi quei capolavori dell’epoca… con la differenza che negli anni 40 vita vera, reale e vita fantastica andassero spesso e volentieri a braccetto di quegli artisti, scrittori, poeti maledetti: non esisteva un confine, si provava sulla propria pelle ciò che si raccontava, si sperimentava e la storia stessa sembrava un flusso infinito, senza direzione. Ora forse, al di là di certi deprecabili eccessi e di una visione di vita tendente all’egoismo e all’individualismo più sfrenato, scambiato per ricerca di libertà – ma che comportava scarso senso di responsabilità per alcuni di questi beat – tutto sembra sin troppo circoscritto, studiato a tavolino… manca quel senso di ricerca del sé, il gusto della scoperta, la sorpresa di nuovi orizzonti che per quei ragazzi era vitale, necessaria, anche se per avervi accesso si utilizzavano espedienti discutibili.