Alessandro Rocca - Transiti

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Scritto da: Vanoli

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alessandro rocca transitiDimora Records, 2020

 

 

 

Mi sono approcciato al disco d’esordio del cantautore Alessandro Rocca con molta curiosità e, lo ammetto, trepidazione, visto lo spessore che ero riuscito a intravedere anche solo collegandomi ad aspetti non esclusivamente musicali, quali la suggestiva copertina (opera dell’artista Andrea Tsuna Tomassini) e la minuziosa cura del lavoro, messo a punto nell’arco di addirittura dieci anni dal giorno in cui si era posta la simbolica “prima pietra” all’agognato approdo discografico.

Oltretutto, l’autore stesso ha mostrato molta sensibilità anche semplicemente nel presentare la sua opera al sottoscritto, quasi muovendosi con pudore, laddove al suo posto tanti altri artisti o gruppi sgomitano a più non posso, talvolta ricorrendo alle parole più mirabolanti, pur di far arrivare la propria musica al maggior numero possibili di destinatari.

In un mondo per certi versi assai omologato come quello musicale attuale, anche piccoli particolari possono fare la differenza e tutto sembrava, almeno per il mio modo di intendere l’ascolto, convergere al meglio nel momento in cui ho fatto partire la prima traccia di “Transiti”.

Gli arpeggi delicati di “Stipiti” riecheggiano da subito potenti e ipnotici, delineando un’atmosfera che poi finirà per permeare e invadere tutta la mia stanza, quella di un’inquietudine mai opprimente, ma piuttosto in grado di metterti davanti ai quesiti e ai dubbi più preminenti e profondi della nostra esistenza, del nostro piccolo grande mondo.

E il tarantino Rocca (di stanza a Varese) è capace di trasmetterti le angosce e i saliscendi emotivi di un intero percorso di vita fin qui compiuto portandoti, senza far rumore, quasi cullandoti, laddove sente più forte il bisogno di condividere e comunicare i suoi stati d’animo.

Per curiosità avevo chiesto all’autore la sua età, sapendolo al debutto. Il fatto che da poco abbia passato la quarantina non cambia certo il mio giudizio ma se non altro mi conferma come sia importante, per arrivare a scrivere brani carichi di tale intensità e dolore, aver vissuto e provato magari sulla propria pelle alcune situazioni anche complesse, fino a portarne degnamente ancora le cicatrici.

 

E per quanto sia spesso assai criptico in alcuni punti della sua poetica, con immagini vivide quanto sfuggenti e misteriose, la forza evocativa dei suoi testi, spesso e volentieri somiglianti a monologhi, flussi di coscienza, schegge di memoria, ti giunge intatta e soprattutto chiara e intelleggibile.

Vorrei fugare presto però alcuni eventuali dubbi che vi possono essere giunti leggendo le mie considerazioni: l’album trasuda sì inquietudine e a tratti disperazione, ma è tutto fuorchè depresso e agghiacciante. Anzi, l’idea che mi sono fatto è che Alessandro ormai è un uomo fortificato, pronto a scendere in pista nella battaglia che è la vita, forte com’è di mezzi espressivi, efficaci e risolutivi, che risuonano da ogni canzone qui presente. E fra le pieghe dei testi si intravedono spiragli di luce positiva, dei segni di speranza a tenere viva la sua azione e la sua arte.

L’approccio artistico, giusto per provare a delinearne un tratto, è quello del Nick Cave maturo, di un giovanile Rimbaud, del De Andrè più “terreno”. Insomma, ovunque lo si provi a inquadrare, gira che ti rigira rimane in piedi il grande valore dell’opera. 

Dicevamo di “Stipiti”, la prima traccia è un credibile biglietto da visita di quello che andremo ad ascoltare e induce all’ascolto, fungendo quasi da ritratto programmatico dell’album. Musicalmente sobrio ma ficcante al tempo stesso, si dipana lungo oltre sette minuti e mezzo, tutti scanditi da versi pregni di significato, al più illuminati.

Il bisogno e una certa ansia comunicativa sono connaturati allo spirito di Rocca che già dalla traccia successiva, la più cruda (seppur ariosa a livello musicale, forte di un arrangiamento raffinato) “Nessuno”, affila i colpi, consegnandoci un testo tagliente e molto a fuoco, dove nullo è lo spazio per una riconversione, fin dal potentissimo – a livello visivo e concettuale – incipit: “di noi chi si ricorderà/quando tutti i nostri nipoti saranno morti e decomposti?…. non sai che cosa fare per renderti immortale”.

 

 
 
La seconda traccia del disco: “Nessuno”, tra i brani migliori di Alessandro Rocca

Questi tratti della sua penna, se da un lato mostrano una vena letteraria autentica, dall’altra possono intralciare l’ascolto di chi è meno disposto a lasciarsi andare alle confessioni del nostro.

In ogni caso è innegabile come concorrano alla felice riuscita del progetto, al di là di testi di spessore, quelle che sono musiche altrettanto ispirate e rivelatrici, in grado di addolcire parole spesso pesanti come macigni, proprio come accade mirabilmente nella già citata “Nessuno”, i cui rintocchi di pianoforte sono magnifici e il violoncello caldo e avvolgente.

Artefice di questa tavolozza musicale che si manifesta di volta in volta ora austera e cameristica, ora vivace e con scorci di luminosità, è Luca Gambacorta che ha curato gli arrangiamenti, oltre ad aver suonato pianoforte e altri strumenti, mentre un valido apporto in studio, a completare il suono della chitarra acustica su cui poggiano le basi i vari brani, ci sono Cecilia Santo al violoncello, Marco Di Francesco al contrabbasso e Paolo Grassi al clarinetto.

Ma non bisogna assolutamente dimenticare l’importanza di Andrea Cajelli, purtroppo morto prematuramente, titolare dello studio dove sono avvenute le registrazioni, a cui Rocca riconosce in modo commosso i meriti per la realizzazione di questo progetto.

Il risultato è un connubio assolutamente vincente, alla ricerca di un equilibrio di forma e sostanza finalmente ottenuto, dopo, si presume – visto il lungo arco di tempo trascorso prima della pubblicazione – diverso lavoro di rifinitura e cesello.

In un brano come “Pesci” ad esempio ogni aspetto è reso perfettamente, laddove un testo caratterizzato da immagini vivide e affascinanti, che raggiunge il suo culmine quando viene declamato: “i pesci presi nelle reti sono più liberi dei pescatori, gli uccelli chiusi nelle gabbie non hanno smesso mai di volare ed io cammino in spazi aperti, cristallizzati in dedali di regole…” è avvolto in un apparato musicale intimo e raccolto, che lo delinea al meglio, valorizzandolo nei suoi elementi.

“Licaone”, invece, ottava traccia del lavoro, riprende le atmosfere che avevamo sentite già particolarmente tese in altri momenti topici come “Sventrati” e inizia in modo perentorio, quasi un paradigma del Nostro per farci entrare subito nel mood del pezzo: ” Si può vivere così riducendosi a sputare sangue senza faticare? Il mio posto non è qui come un licaone in mezzo al mare che non sa più cosa fare“.

Non si riscontrano ad ogni modo degli episodi meno incisivi rispetto ad altri, ogni canzone – sintetizzata nel titolo da un vocabolo ogni volta assai efficace – è un tassello di un percorso esistenziale che culmina nell’invocazione (simile a una rassicurante constatazione) presente nell’ottima title track, la profonda e magnetica “Transiti”, che chiude il tutto dispiegandosi in un affresco sonoro di otto minuti: “Io voglio vivere, non l’ho scelto, sì, ma io voglio vivere”, ripetuto tre volte, come a ribadire una forte volontà e una rinnovata determinazione ad assaporare le cose belle che un’esistenza vissuta appieno sa offrirci.

E’ questo un album davvero sui generis nel tanto frastagliato novero dei cantautori italiani, che non strizza l’occhio a nessuno, se non a quelle persone che ancora, nel 2020, intendono un disco come l’approdo a qualcosa di più che un semplice ascolto di sottofondo, qualcosa che può magari anche turbare ma in grado soprattutto di regalare emozioni e sensazioni fortissime.